09.06.2022
Si chiamava Teresa, ma ho difficoltà a descriverne il ruolo nella grande casa di Santa Lucia di Serino.
Potrei definirla “prima attendente” di mamma, ricorrendo al linguaggio militare del periodo di guerra.
Collaborava alle faccende domestiche e lei, che di famiglia non ne aveva più, era l’ottava persona della nostra famiglia, composta dai nonni Carmine e Felicetta, dai miei genitori e da noi tre figli.
Viveva in casa nostra, pranzava con noi ed era vigile protettrice e severa educatrice, lei che a stento riusciva a riprodurre la sua firma, di noi bambini.
Siamo a gennaio del 1943.
I tedeschi rastrellano le case alla ricerca di disertori, antifascisti e, più in generale, uomini da mettere sui treni con direzione Germania, solo andata.
Mio padre fiuta il pericolo e, pur febbricitante, organizza in fretta una “spedizione” ad Atripalda, dove sarà più semplice trovare rifugio.
La più piccola delle mie sorelle, meno di due anni, cade col culetto nel braciere acceso.
Pianti, ustioni curate alla bell’e meglio, disperazione generale, ma ecco intervenire Teresa; non ha esitazioni, la avvolge il una coperta, la abbraccia e la porta con sé stretta al petto.
La terrà così fino alla guarigione.
Quella guerra, come tutte le guerre, ha visto giovani soldati, sull’uno e sull’altro fronte, vittime di un disegno di conquista folle e scellerato; ha visto il sacrificio dei partigiani e la partecipazione di intere famiglie che hanno messo a repentaglio la propria vita per proteggere altre famiglie e, soprattutto, i loro bambini, che avevano l’unico torto di essere ebrei.
Ma ha visto anche tanti eroi comuni, come Teresa o le tante Terese, alle quali va il mio ricordo e la mia gratitudine.