09.02.2025
In molti Centri dell’Irpinia c’è la consuetudine di festeggiare due volte il Santo Patrono, soprattutto se la data della ricorrenza capita di inverno e non consente agli emigrati in altre città di tornare per l’occasione.
Cosa che capita puntualmente ad Atripalda, dove la festa “vera” è quella del 9 febbraio, data di nascita del Santo a Canosa di Puglia nel 566; una festa a cui seguirà quella grande del 16 settembre.
Quella del 9 febbraio è prevalentemente religiosa ed inizia il giorno precedente con l’accensione dei ‘focaroni’, in vari rioni.
Il più importante viene acceso, dopo la benedizione, nella piazza principale del Paese.
Al calore dei Focaroni, si unisce quello del ritrovarsi insieme, in un clima di festa, assaggiando diversi prodotti e piatti tipici dell’enogastronomia irpina, in una entusiasmante e caratteristica commistione tra fede, rituali e sapori
L’accensione di un fuoco sacro ha, secondo la tradizione, una finalità purificatrice dai mali e dalle tenebre, dal gelo e dall’isolamento dell’inverno, nonché lo scopo magico di riscaldare la terra, favorendo il ciclo della rinascita e del ritorno della primavera. L’accensione del falò nel mondo contadino e pastorale infatti era un antico rito di passaggio dalla duplice valenza. Si voleva bruciare l’anno vecchio e sostenere e vivificare con le fiamme la luce, quando le tenebre sembravano sopraffare il Sole nel suo cammino annuale. Dall’altro lato la fertilità della terra, la produzione di buoni raccolti era assicurata dal rito purificatore e fecondatore dello spargimento delle ceneri sui campi, prodotte dai falò.
La cerimonia di febbraio è concentrata nella mattinata e, dopo la Santa Messa, si conclude con la Processione del Santo per le principali strade del Paese.
Circostanza che ha inciso anche sulle abitudini culinarie, perché a quell’ora sarebbe difficile preparare un pranzo in tempi brevi, motivo per cui si opta per la classica lasagna che è possibile preparare prima e, poi, mettere a riscaldare.
La ricorrenza di San Sabino si caratterizza per i fuochi pirotecnici, che, a settembre, hanno luogo dopo la mezzanotte ed illuminano il cielo dietro la collina di San Pasquale, mentre, a febbraio, si limitano alle “batterie” alle quali ogni quartiere dà fuoco al passaggio del Santo.
Sono fuochi che, ai colori, sostituiscono il rumore.
È stato così da tempo ed il mio primo ricordo risale al 9 febbraio del 1946 quando – era il periodo dell’immediato dopo guerra - nella zona del largo tigli, c’erano ancora i carri armati degli Americani, i nostri liberatori, con granate ancora intonse che utilizzarono per l’occasione.
Abitavamo all’epoca, al primo piano del fabbricato in Piazza Umberto I, sede, al pian terreno, del Partito Comunista.
In precedenza, locammo un appartamento del Sindaco dell’epoca Carmine Nazzaro nel fabbricato che si caratterizzava per un intenso odore di formaggi, perché, negli ampi locali al piano terra – ora negozi di tessuti già gestiti da Enzo Iannaccone - venivano messi ad essiccare provoloni ed altri formaggi dei Fratelli Nazzaro, congiunti del Sindaco e dei Fratelli Vitale.
Ma torniamo in piazza Umberto Primo.
Tra i mobili dell’epoca, in bella vista, c’era la cristalliera, su tre lati costituita da vetri , con mensole, sempre di vetro, sulle quali, anche mia madre, come la maggior parte delle donne dell’epoca, appoggiava le cose più fragili e “preziose”, dal servizio di porcellana, alle tazzine di limoges, ai bicchierini di rosolio multidecorati, alle coppe in vetro per lo spumante o lo champagne.
L’esplosione della prima granata provocò un tale spostamento d’aria – stavamo a circa 200 metri, dal punto dello scoppio - che il balcone si spalancò e cadde l’intero contenuto della cristalliera.
Si salvò solo qualche bicchiere, che tengo, ancora conservato per ricordo.
Come da tradizione, nel pomeriggio, tornammo nella Chiesa di Sant’Ippolisto, verso le 18, per prendere la Santa Manna.
È una cerimonia di notevole valore simbolico.
Quattro o cinque sacerdoti tracciano sulla fronte dei fedeli che sfilano davanti a loro un segno di croce con una piuma imbevuta di un liquido chiamato “Santa Manna”, mescolato con acqua benedetta; altri chiedono di bagnare di Manna un fazzoletto di stoffa o un batuffolo di cotone idrofilo per portarlo a casa della persona cara, impedita a presenziare, come segno della protezione del Santo.
L’origine della Santa Manna è dovuta alla ricognizione delle ossa del Santo, del quale, aperto il sarcofago custodito nello Specus Martyrum, fu ritrovato l’intero corpo, ricoperto di un liquido: questo fu applicato al piede di uno storpio, Sabino Farese, che guarì immediatamente.
Buon San Sabino a tutti ed arrivederci a settembre