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Varia Umanità

04.12.2021

LE PAROLE DI DANTE / Dante e la Divina Commedia

di Gabriele Meoli

Un uomo geniale di spettacolo e cultura, Roberto Benigni, ha giustamente affermato (in “Il mio Dante”) che la Divina Commedia è la vetta delle letterature e chissà cosa abbiamo fatto di straordinario per meritarci un dono così bello. E’ come se Dio avesse detto : “Guarda, sono stati talmente bravi e buoni che li voglio premiare; gli do uno che gli scrive la Divina Commedia (per giunta in Italiano)! E Dante non l’ha scritta solo perché Dio esiste, ma perché Dio esista”.

E che inoltre “Dante non è mai stato superato. Nessuno è stato capace di eguagliare tanta scandalosa bellezza. Il suo è un libro in cui si volta pagina e si applaude”.

Egli, infatti, ci racconta di aver visitato, nientemeno, l’inferno, il Purgatorio, il Paradiso; e noi siamo portati a credere che lui, all’aldilà, ci sia stato davvero, tanta è l’efficacia della sua narrazione e l’altezza dei suoi contenuti.

Ecco perché è sempre troppo bello sentir recitare, anche ripetutamente ed a memoria, quei tanti endecasillabi danteschi a tutti noti, che mettono, ogni volta, in chi li ascolta, emozione e commozione, poiché esaltano la bellezza della poesia nella forma e nei suoi contenuti, ormai patrimonio per tutti.

Ad esempio, non v’è chi non conosca, tra le molteplici altre parole di Dante, versi famosi, quali “tanto gentile e tanta onesta pare”, “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Lasciate ogni speranza o voi ch’intrate”, “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”, “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”, “Fatti non foste a viver come bruti”, “La bocca sollevò dal fiero pasto”, “State contenti, umana gente al quia”, “Ahi serva Italia di dolore ostello”, “Era già l’ora che volge il disio”, “Come sa di sal lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”, “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio”, “L’Amor che move il sole e l’altre stelle”.

Questo prodigioso Poeta ebbe vita non tanto lunga, ma oltremodo intensa in ogni campo (culturale, poetico, politico, religioso, amoroso).

Nato a Firenze nel 1265, amò perdutamente Beatrice, figlia di Folco Portinari, da lui conosciuta, fin dal 1274, all’età di nove anni vestita di rosso. Di lei riceverà poi il saluto, nove anni dopo, come egli stesso narra nella “Vita nuova” : “Questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutò e molto virtuosamente, tanto che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine”.

Ma Beatrice andò poi sposa a Simone de’ Bardi; e Dante, invece, sposò Gemma di Manetto Donati, da cui ebbe figli Pietro, Jacopo e Antonio (1283-1286).

Dante acquisì da solo una splendida e vasta cultura e da Brunetto Latini l’arte della retorica (1289), entrando altresì in contatto con i migliori intellettuali e rimatori dell’epoca, che in parte riunì poi nella “Commedia” sotto la corrente poetica da lui definita “dolce stil novo”.

Prestò servizio per la guerra contro i Ghibellini di Arezzo (1288); combatté a Campaldino (1289) e fu presente alla resa del castello di Caprona tenuto dai Pisani. Purtroppo, l’otto giugno 1290 muore prematuramente Beatrice, la sua grande ispiratrice intellettuale e morale, provocando in lui una grave crisi, dalla quale il Poeta si risolleverà solo con lo studio amorevole della filosofia e della teologia. Egli racconterà, con le varie rime raccolte nella “Vita nuova”, l’esperienza amorosa da lui stesso vissuta nel primo incontro fino a dopo la morte della sua Bice (1293).

Dante partecipa, poi, alla vita pubblica, iscrivendosi all’Arte dei medici e degli speziali ed entrando nel Consiglio speciale del Popolo; e fu altresì coinvolto nelle lotte cittadine tra le fazioni dei Bianchi, cui egli apparteneva e dei Neri (1295). Nel 1300 è eletto priore ed i capi dei Neri e dei Bianchi vengono banditi da Firenze.

Tra questi è anche il suo fraterno amico Guido Cavalcanti, che, confinato a Sarzano, si ammala di malaria e, rientrando in Firenze, vi muore il 29 agosto.

Nel 1301 Dante è inviato a Roma come ambasciatore presso il Pontefice. Ed intanto i fuoriusciti Neri, capeggiati da Corso Donati, rientrano in città il giorno 5 novembre, rovesciano il governo e si abbandonano a saccheggio e vendetta, devastando anche le case degli Alighieri.

In Firenze, in preda ai Neri, hanno luogo processi penali contro gli avversari politici; ed anche Dante, accusato di baratteria e di opposizione al Pontefice ed al Valois, il 27 gennaio 1302 riporta condanna a cinquemila fiorini di ammenda, confino per due anni ed interdizione perpetua da pubblici uffici. Ed avendo egli rifiutato di discolparsi entro il 10 marzo, viene altresì condannato in contumacia alla confisca dei beni ed al rogo. A seguito di ciò il Poeta non tornerà mai più in Firenze ed ha inizio la sua lunga peregrinazione per trovare altrove accoglienza, anche sperimentando “come sa di sal lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale”.

E così nel 1303 è a Forlì presso Scarpetta degli Ordelaffi e poi a Verona alla corte di Bartolomeo della Scala. Scoraggiato, poi, per il comportamento degli altri esuli, se ne allontana (1304) e decide di “far parte per se stesso”, dedicandosi alla composizione del “Convivio” (trattato filosofico in volgare) e del “De Vulgari eloquentia” (relativo alle origini e storia del linguaggio).

Dante trova, poi, ospitalità a Treviso, alla corte di Gherardo da Camino, indi a Padova, presso gli Scrovegni, in Lunigiana protetto dai marchesi Malaspina, e in Casentino presso Guido di Battifolle. Visita anche Bologna e Lucca ove inizia la composizione dell’Inferno (1305-1309).

Riaffiora in Dante una speranza di poter tornare a Firenze, a seguito della venuta dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo; che però muore improvvisamente per febbri malariche il 24 agosto 1213, vanificando definitivamente ogni aspettativa del Poeta; il quale intanto completa la stesura del Purgatorio (1312-1313).

Negli anni dal 1314 al 1318, Dante è a Verona, alla corte di Cangrande della Scala, cui dedicherà la composizione del Paradiso. In questo periodo scrive anche il trattato “Monarchia”.

Intanto, il 16 novembre 1615 egli si vede confermare la condanna a morte, estesa anche ai suoi figli, avendo rifiutato le (umilianti) condizioni proposte dal governo di Firenze per mitigare le pene agli esuli.

Infine, nel 1318, ospitato da Guido Novello da Polenta (nipote di quella Francesca immortalata nel V canto dell’Inferno), si trasferisce Ravenna, dove, di ritorno da una ambasceria a Venezia per conto del predetto, muore il 14 settembre del 1321, data della quale ricorre attualmente i settecentesimo anniversario. Ivi sono i suoi resti, invano richiesti, ripetutamente, da Firenze.

Nella sua “Commedia”, definita “divina” dai posteri, a cominciare da Boccaccio, Dante, oltre ad esserne il poeta autore, agisce sulla scena anche come personaggio che racconta una straordinaria avventura: un suo viaggio ultraterreno, in vista del quale egli confida a Virgilio i propri timori, dubitando di esserne all’altezza (“Poeta che mi guidi,/ guarda la mia virtù s’ell’è possente,/prima ch’a l’alto passo tu mi fidi” “Io non Enea, io non Paulo sono;/me degno a ciò ne’ io ne’ altri ‘l erede” Inf. II). Ma poi finirà per fare tale esperienza, scendendo agli inferi come Enea e salendo al Paradiso come S. Paolo.

Il suo poema reca innanzitutto un profondo senso allegorico morale, poiché, in esso, Dante rappresenta l’uomo peccatore, poi convertito per misericordia divina; la cui ragione, rappresentata da Virgilio, si risveglia e può considerare i vizi e gli errori umani destinati alle pene infernali; i modi per emendarsi dal peccato nel Purgatorio e riacquistare l’originaria innocenza nel Paradiso terrestre, nonché, con la guida di Beatrice, conoscere le virtù soprannaturali e meditare, per contemplazione di un istante, sui misteri della divinità nel Paradiso.

La Divina Commedia esprime anche un importante allegoria politica, laddove la ben nota “selva oscura” del suo canto introduttivo, dominata dalle tre fiere all’uscita che ostacolano la salita al “dilettuoso monte illuminato dal sole”, allude alla società dell’epoca piena di errori e vizi, che attende salvezza dall’arrivo di un principe (il “Veltro”) il quale ripristinerà l’ordine dell’Impero e riporterà il Papato nell’orbita dei valori spirituali.

Di qui le varie invettive pronunziate dal Poeta nel corso della sua Commedia e la natura politica dei tre sesti canti della stessa. Nell’Inferno, infatti, incontra il fiorentino Ciacco, che gli predice il trionfo del partito dei Neri e la caduta dei Bianchi (vv. 37-93), vicende delle fazioni fiorentine per la venuta di Carlo di Valois; nel Purgatorio, parla con Sardello mantovano (vv. 58-75) e ne consegue l’invettiva che colpisce l’Italia e Firenze (“Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave senza cocchiero in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!” vv. 76 ss.), così Dante coglie occasione a parlare del lacrimevole stato d’Italia; nel Paradiso, l’imperatore Giustiniano narra la sua vita e la storia dell’Impero romano (vv. 1-96), e si deplorano le offese dei guelfi e dei ghibellini contro l’aquila (vv. 97-111), riprovandone l’accanimento.

Il Poeta considera il valore della politica, che dovrebbe essere animata dalla fiducia verso gli altri e che, invece, è spesso diffidenza e conflitto di interesse con un avversario da combattere. Ed in esito a tale conflitto, c’è per il perdente soltanto l’esilio, che ti priva dell’orgoglio, costringendoti a vivere errante e della carità altrui, ed, in caso di resistenza, addirittura di pena di morte.

Tuttavia Dante ha trovato la sua riscossa proprio nella sua Commedia, nella quale coloro che lo hanno deluso son finiti all’Inferno.

La vita vera di Dante inizia solo da quando il suo sguardo incontrò quello di Beatrice; ma, dopo il rimpianto per la morte di costei, vi subentrò la sua passione per la vita pubblica. Senonché i contrasti civili, resi ancora più insopportabili dalle personali sventure, tormentarono a lungo l’animo del Poeta esule; che si rifugiò nella creazione del suo capolavoro letterario di eterna durata, nel quale è riversato il suo sconfinato patrimonio culturale in tutti i campi del sapere.

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Et de hoc satis!